SCUOLA CREATIVA . sito dedicato a Gianfranco Zavalloni, intuizioni ... il suo cammino... per chi vuole proseguire
I Suoi Maestri

I Suoi Maestri

Questa pagina nasce con l’intento di far conoscerele storie di persone che hanno lasciato (o stanno lasciando) una tracciasia attraverso esperienze dirette, che attraverso le parole scritte.

Carlo Doglio
un maestro all’università

L’esperienza didattica è di per se unica.
Ognuno di noi ha ricordi, esperienze vissute, momenti di vita scolastica da poter narrare.
Gli insegnanti dovrebbero prendere l’abitudine di appuntarsi il lavoro fatto su un quaderno o un diario.
E dovrebbero, a mio parere, far fruttare questa esperienza per se stessi e per gli altri.
Anche questo è un aspetto importante dell’insegnare.
In Italia abbiamo pochissimi esempi di didattica narrata e documentata.
Nella mia esperienza di studente-allievo devo confessare di essere stato molto fortunato.
Soprattutto nella mia ultima esperienza scolastica, quella universitaria. All’università di Bologna ho conosciuto un vero maestro, Carlo Doglio.

Era il mio professore di Pianificazione e organizzazione territoriale e nel suo far lezione é riuscito a darmi gli elementi essenziali per capire cos’è una scuola.
Vorrei qui riassumerli e comparteciparli con chi, prima o poi, leggerà queste note.

È maestro colui che sa creare legami

Carlo Doglio aveva reso obbligatoria la frequenza alle sue lezioni. In una epoca in cui spesso ci si accingeva alla sessione di esame avendo solo letto sui libri, Doglio aveva chiarissimo la distinzione fra maestro e libro di testo. Un libro per quanto esauriente possa essere non potrà mai divenire maestro.Il libro è certamente uno degli strumenti fondamentali per documentare, per comunicare, per far riflettere, per informare e formare. Ma non c’è libro che possa sostituire la persona. E non c’è lettura che possa sostituire la relazione umana che comunica un vissuto, una esperienza. Per crescere educativamente bisogna creare relazioni, comunicare con i gesti, la parola, gli sguardi, gli umori, i sapori, gli odori, le mani, il tempo. Per questo Carlo Doglio ci voleva presenti e vivi. Ma anche lui era presente, vivo e attivo. Ricordo con grande emozione le volte che per discutere e leggere le prime bozze della tesi di laurea veniva a casa mia. Con grande umiltà saliva sul locale che da Bologna lo conduceva e Cesena e qui lo vedevo apparire sulla banchina del secondo binario, sempre accompagnato dal suo tascapane di cotone verde. Poi a casa mia si discuteva di tecnologie appropriate e di Perù (erano gli argomenti della mia tesi) e lui insisteva perché parlassi soprattutto di me, delle mie esperienze di vita, delle mie impressioni, delle mie idee. E insieme si concludeva a tavola, con i miei genitori, attorno ad un piatto di erbe e piadina romagnola. Aveva creato un legame. E, da buon maestro, questo legame unico lo sapeva creare con tutti gli studenti, soprattutto con coloro che seguiva nell’avventura della tesi. L’ultima volta che ho visto Carlo è stato il giorno del mio matrimonio. Non volevo che mancasse, lui mio maestro e amico, in un momento di grande gioia quale è stato per me quel giorno.

È maestro colui che sa farti vedere gli orizzonti verso cui inoltrarti
Le lezioni che Carlo Doglio teneva presso la facoltà di Discipline Arti Musica Spettacolo (DAMS) di Bologna e da noi frequentate non vedevano un unico professore. Per sua scelta aveva voluto che su un tema così controverso qual è quello della Pianificazione territoriale non ci fosse un unico punto di vista. Lui anarchico, libertario, nonviolento, aveva voluto accanto l’allora assessore comunista all’urbanistica del Comune di Bologna, il professore PierLuigi Cervellati. Facevano lezione alternandosi nel dialogo, nella esposizione e nella conversazione. Sullo stesso argomento emergevano, così, quasi sempre, due punti di vista. Ma non erano i soli. C’erano anche i rispettivi assistenti, sempre presenti e sempre stimolati ad intervenire. E’ vero maestro non colui che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali tu puoi liberamente inoltrarti.

È maestro colui che sa percorre insieme a te un tratto di strada e si siede alla mensa accanto a te

Carlo Doglio ci portava in strada. Lui professore di Pianificazione territoriale aveva colto l’importanza del far esperienza concreta. Sapeva perfettamente che dai libri si apprende in maniera mediata, non diretta. Così ci ha fatto conoscere una Bologna che forse nemmeno la quasi totalità dei bolognesi conosce: la Bologna delle acque, dei canali che passano in mezzo alla città, in buona parte cementati e tombinati, ma ancora in parte “a cielo aperto”. Carlo ci conduceva la dove esistevano ancora squarci di canali in quella che, grazie alla presenza di tanta acqua, divenne la prima città industriale d’Europa. E poi la bolognina, uno dei primi quartieri popolari pianificati secondo criteri di vivibilità. Si andava insieme, camminando per strada, soffermandoci per ascoltare commenti, per far domande, per vedere meglio un dettaglio, gli ambienti, le case, il verde. E poi, insieme, si andava al convivio. C’erano i prati di Mugnano, sull’Appennino bolognese, con la trattoria agrituristica. Non era goliardia. Era la pedagogia della strada e della tavola. Banalità? Sciocchezze?!! Riflettiamo per un attimo alla pedagogia di Gesù Cristo. Non era forse stata, anche la sua, una pedagogia della strada e della tavola? Cosa c’è di più conviviale della strada e della mensa?

E gli esami ?
Qualcuno si sarà sicuramente già chiesto: si ma poi all’esame, cosa avete fatto? Non abbiamo sostenuto un esame classico, cioé una interrogazione fatta a domande e risposte. L’esame è consistito nella recensione di tre libri a scelta fra quelli consigliati per quella materia. Devo confessare che nel fare quelle “recensioni” ho provato per la prima volta una grande difficoltà, ma anche un grande piacere. Il piacere di chi non è chiamato solo a conoscere e a ripetere il pensiero e le opinioni di altri, ma ad esprimere un proprio, personale, individuale pensiero e/o giudizio. Doglio è stato davvero un educatore, ha cioé aiutato ciascun allievo a venir fuori, ad emergere nelle proprie potenzialità.
Grazie maestro Carlo.

lettera in memoria del maestro Federico Moroni

La scuola riminese è ricca di esperienze didattiche di alto valore pedagogico. Sono esperienze che nascono dall’incontro di allievi con persone di grande spessore culturale.

È qui la scuola, è qui l’essere veramente maestri. C’è un proverbio antico che dice: un vecchio che muore è come una biblioteca che brucia. La morte di un maestro è da questo punto di vista paragonabile all’incendio devastante di una “biblioteca pedagogica”.

Sono questi i pensieri che ho avuto in questi giorni, leggendo della morte del Maestro Federico Moroni di Santarcangelo. Non ho mai conosciuto personalmente il maestro Moroni; ne ho sentito sempre parlare da amici. Ho avuto fra le mani una rara copia del suo Arte per nulla (poi Arte per gioco) delle Edizioni Calderini.
Il valore pedagogico della esperienza di scuola del maestro di Santarcangelo è ben sintetizzato nella pagina del Corriere di Romagna uscita il giorno del suo funerale, avvenuto mercoledì 26.07.2000 scorso.
Sono amareggiato per la poca attenzione che la pedagogia cosiddetta ufficiale riserva ad esperienze come quella di Moroni.
Eppure sono queste le vere leve del cambiamento in positivo della scuola.
La scuola dell’autonomia, che entrerà a regime dal primo di settembre, ha il dovere morale di far memoria e divulgare queste delle proprie esperienze didattiche.
E’ questa la pedagogia più viva più vera, quella più significativa.
Ma auguro che il Comune di Santarcangelo, in collaborazione con le istituzioni scolastiche e gli enti locali della provincia di Rimini, prosegua il lavoro fatto in occasione dell’iniziativa “Arte per nulla…” realizzata in quel di Santarcangelo dal 26 al 29 settembre 97 e così ben documentata nel libro La scuola di Bornaccino a cura di Pier Angelo Fontana (ed. Maggioli, RN).

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Prendendo servizio il 1 settembre del 2.000 presso l’Istituto Comprensivo Statale di Pennabilli (Pesaro Urbino), ho inviato alla scuola di Rimini questo cordiale e sincero ringraziamento, per un anno fecondo vissuto insieme a colleghi, docenti e bambini.
il direttore didattico Gianfranco dottor Zavalloni

Mario Lodi, maestro della Repubblica Italia

In Italia, chi ha a che fare con la scuola non può non fare i conti con Mario Lodi e i suoi 90 anni. Ciò significa che, esclusi i periodi di formazione (l’infanzia e la giovinezza), Mario Lodi accompagna la scuola d’Italia da circa 70 anni. È la scuola nata dopo l’esperienza del “regime”, che pretendeva dagli insegnanti il giuramento al Re e al Duce. La scuola che aveva il libro di testo unico: sfogliare oggi quei testi ci si rende conto come tutto mirava alla esaltazione del fascismo e come l’apologia sfociava poi nel ridicolo.
La scuola che pretendeva tutte quelle azioni propedeutiche alla guerra (il sabato fascista, i balilla, la GIL, gioventù italiana del littorio..).

Lodi, cresciuto da bambino in quel clima, è invece della generazione dei maestri del secondo dopoguerra.
La generazione di maestri come don Milani, Alberto Manzi, Loris Malaguzzi, Gianni Rodari, Maria Maltoni, Margherita Zoebli, Federico Moroni e naturalmente delle migliaia di maestre e di maestri “ignoti”. Sono loro che inventano giorno dopo giorno la scuola democratica della repubblica italiana.  Siamo tutti debitori – quindi – a Mario Lodi, che il 17 febbraio 2012 soffia su 90 candeline. 
E voglio dire grazie a Mario per la responsabilità che si è assunto e che ha saputo condividere.
Cito solo alcuni passaggi del suo “fare il maestro” che ritengo significativi:
Padre della Costituzione – Generalmente noi definiamo “padri della costituzione” coloro che, facendo parte della assemblea costituente, hanno steso tutti gli articoli della costituzione italiana. Ma credo siano padri della costituzione anche coloro che hanno sperimentato, coi bimbi e le bimbe, la capacità di condividere regole comuni e l’assunzione di impegni e responsabilità. La costituzione non la si impara solo da adulti, quando se ne capiscono intellettualmente tutti gli articoli. La costituzione la si vive fin da piccoli, nella comunità di cui facciamo parte. La costituzione è per bimbi e bimbe anche nel loro modo di giocare e di studiare.  
Promotore di movimento – “Nessuno nasce imparato”… espressione non corretta dal punto di vista grammaticale, ma che esprime molto bene l’atteggiamento da tenere nei confronti di qualsiasi mestiere. Essere e fare i maestri dopo un ventennio di regime non era facile. Mario ha capito che non poteva essere un mestiere “solitario”, da vivere in “isolamento”. E così, ispirato anche da Celestino Freinet, ha contribuito alla nascita del Movimento di Cooperazione Educativa. Una delle associazioni in cui gli insegnanti si confrontano, fanno ricerca, crescono insieme. Quando Mario Lodi era segretario nazionale dell’MCE si raggiunse il massimo dei suoi iscritti, circa 6.000. Per un insegnante, condividere insieme ai colleghi le ansie, le difficoltà e i sogni è – direi – vitale.  
Vivere in comunità – Per Mario Lodi la classe non è un luogo in cui il maestro va per trasmettere il suo sapere agli allievi. La concezione dell’uomo che ha Mario Lodi è quella “mutualistica”, quella “cooperativa”. Si impara insieme, si fa ricerca, si vive in comunità. La scuola diviene allora un laboratorio in cui la comunità collabora e dove ognuno mette la sua parte, assumendosi le proprie responsabilità. 

Documentare, stampare e divulgare – Uno degli aspetti significativi della “ritrovata libertà”, su ispirazione di Freinet, è la tipografia a scuola. I ragazzi di Vho (dove Lodi ha trascorso la maggior parte del suo periodo da maestro) imparano insieme a lui a produrre testi poetici, ricerche, articoli, lettere. Dall’altra parte degli Appennini, nello stesso periodo, anche i ragazzi di Barbiana sperimentano questa avventura, che è ,prima di tutto “dominare la parola”. Ma non solo. Questa conquistata libertà anche da parte degli studenti, si trasforma in “documentazione” condivisa. È così che oggi, grazie anche alla sensibilità di editori come Einaudi, della esperienza di “Mario Lodi maestro” noi possediamo un ampio scaffale di libri, ricerche e mostre. Materiali che generalmente le nostre scuole perdono ma che Lodi, invece, ha saputo valorizzare e divulgare.
Grazie Mario e soprattutto “buon compleanno!”.
Gianfranco Zavalloni . Cesena febbrio 2012

da una lettera che Mario mi ha inviato venerdì 30 agosto 2000 ore 21:20:48
From: “Casa delle arti e del gioco”

Caro Zavalloni, ho visto insieme a Luciana Bertinato il tuo sito. Complimenti! E ho visto Tinin e Giovanni Catti, cari amici. Accetto la collaborazione e spero dia buoni risultati. Il 9 settembre, dalle ore 9 alle 18, nella nostra sede di Drizzona terremo la terza giornata di studio sui libri per i bambini, con questo programma: Relazioni. Il Corriere dei piccoli va alla guerra (Yuri Meda). Libri della paura o del coraggio? (Mario Lodi). Libri belli (Roberto Lanterio). Ragazzi in biblioteca (Irina Gerosa). Gruppi di lavoro: Fare libri a scuola. Libri scritti dai bambini. I bambini giudicano i libri. Animazione del libro. Se potrai venire ci farai piacere. Di Federico Moroni ricordo il suo bellisimo libro, che non ho più: “Arte per nulla”. Era un maestro che desideravo conoscere ma non mi è mai capitata l’occasione. E ora un consiglio: se puoi, torna alla scuola dell’infanzia: Cordiali saluti. Mario Lodi.

Mastro Nocciola, ovvero ROBERTO PAPETTI

La lucertola: un laboratorio di idee e di abilità manuali

C’è un luogo, a Ravenna, che da almeno due generazioni i bambini della città portano dentro nel loro vissuto personale.
E’ il centro La Lucertola, una realtà che si autodefinisce laboratorio di “Gioco Natura Creatività”.
E come tutti i luoghi particolari e un po’ speciali, questo centro ha un’anima originale: Roberto Papetti, un animatore del Comune di Ravenna che oggi coordina tutte le attività che La Lucertola promuove.

Educazione ambientale, gioco, arte e paesaggio, diritti dei bambini e, perché no, educazione alla pace.
Sono i temi che Roberto Papetti affronta attraverso laboratori formativi, i laboratori scolastici, e le iniziative rivolte sia ai bambini che alle scuole, come sono ad esempio le feste pubbliche e le pubblicazioni. Roberto ha però una particolarità: non spiega il gioco, non parla di l’ecologia e di arte, ma lavora per il gioco e costruendo giocattoli, gioca facendo vivere l’ecologia nel concreto, produce e stimola i ragazzi a produrre arte. Non è un educazione agli alunni ma con gli alunni. In ambito educativo ecologia ed ambiente non sono quindi limitati ad una consapevolezza di dati biologici e geografici, ma è piuttosto il vivere e capire le relazioni tra comportamenti umani ed ecosistemi, responsabilità e difesa di ogni organismo vivente. Vivere il gioco, poi, non è solo per Papetti, difesa di un diritto negato ma riconquista di spazi, tempi di gioco, strumenti e ripresa di una tradizione. In ambito artistico, l’arte non solo come consapevolezza di giacimenti storico-culturali ma ricerca di una estetica del vivere che nasca dalle emozioni degli incontri.

Laboratorio delle abilità manuali
Il fulcro della Lucertola è comunque il laboratorio delle abilità manuali il luogo in cui Roberto accoglie i bambini e i ragazzi per ricercare insieme l’utilizzo dei materiali, la riscoperta dell’importanza dell’uso delle mani e dei sensi , l’intelligenza creativa. È qui che nascono giocattoli con i materiali naturali come lo schiopetto, il bilboquette, le gli animali con le ghiande e le noci o con materiali di recupero, come le vecchie cassette da frutta di legno. E così, entrando alla Lucertola noi troviamo giocattoli scientifici, giocattoli che servono per fare musica, giocattoli della tradizione popolare, giocattoli etnici da tutto il mondo, giocattoli rompicapo e giocattoli a percorso labirintico, giocattoli-mobil che si appendono e si bilanciano. Tutti questi rigorosamente autocostruiti. E poi ci sono anche collezioni e le raccolte di tutti i generi, come ad esempio i fischietti o le mitiche biglie. Roberto ha per queste una particolare predilezione: ha scritto l’unico libro in Italia e ha fondato la Università delle Bilie, di cui è rettore.
L’esposizione di tutti questi giocattoli, messi in bella vista e usati dai bambini, sono un vero e proprio museo vico: il Museo delle idee come da un po’ di tempo a questa parte viene definito. Il centro è anche attrezzato di un’aula di microscopia, di una biblioteca e di alcune raccolte naturalistiche (ad esempio i nidi di uccelli) e acquari.

Guarda | Un video su Roberto Papetti e l’arte di costruire giocattoli
Guarda | I mulini di Roberto Papetti della Regista Sandra Degiuli

Michele Massarelli, un maestro…

Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare Massarelli e voglio ricordarlo per alcuni fatti e atteggiamenti, per i quali posso (e possiamo!) dire di avere in Michele un maestro.

La memoria, le date. Michele era una persona che difficilmente dimenticava le date importanti e significative. Spesso era protagonista di anniversari, di date importanti, significativamente legate a persone. Erano spesso persone, famose o sconosciute, che la storia dei grandi aveva sconfitto. Michele era esperto nel “commemorare” (far memoria insieme), mai banale, capace di mettersi dentro le situazione e “ricordare”, cioè riportare al cuore.

Il suo grande rispetto per chiunque (e sullo stile di Gandhi anche per coloro contro i quali si esprimeva) lo rendeva capace di essere con grande dignità in qualsiasi situazione. Voglio ricordarlo il 13 di giugno del 2001, alla Acquarola, durante la messa alla Cappella di Sant’Antonio da Padova. Ad un certo punto della cerimonia Don Giorgio chiede a Michele di parlare. Lui, laico, interviene durante una cerimonia religiosa e solennemente esprime il suo grande spirito comunitario. Quello spirito che lo fa sentire di appartenere anche a quella comunità insieme alla quale (come ha fatto negli anni in tanti luoghi) aveva ricostruito il tempietto.
E a proposito di date vorrei ricordare a tutti che Michele ci ha lasciato in un giorno-ricorrenza (purtroppo!) triste della storia laica e religiosa italiana. L’11 febbraio è infatti l’anniversario del concordato del ‘29 e dell’84. Penso a questa data… come ad un invito di Michele ad una vera laicità della Repubblica Italiana e ad un bisogno, per chi è credente, di ritrovare una fede ancorata non nel potere, ma nella dignitosa povertà.
Bandiera bianca. Michele amava Sorrivoli…e lo pensava come un luogo “simbolo di pace”. Per questo, ripetutamente, in maniera originale, pensava alla torre del castello, come punto in cui issare la bandiera simbolo della pace. Una bandiera bianca. Lui che aveva fondato la Lega Disarmo Unilaterale, che per primo, a Cesena, aveva promosso il Servizio Civile degli Obiettori di Coscienza e l’Obiezione Fiscale alle Spese Militari, pensava alla pace con un simbolo anticonformista: la bandiera bianca che viene issata in segno di resa, per far terminare la battaglia. Il simbolo dei deboli, dei perdenti. Potremmo ricordarlo issando davvero quella bandiera.
Il potere. Michele e il potere è come dire “il bambino e il rè”. Quel bambino che ad un certo punto contro il tacito consenso ha il coraggio di dire che il rè è nudo. Michele aveva il coraggio di indignarsi. Abbiamo parlato di questo le ultime volte che ci siamo incontrati. Di fronte a fatti che suscitavano indignazione Michele metteva mano alla sua macchina da scrivere… ed esprimeva per iscritto (e lo ha sempre fatto anche a voce!) la sua parola di dissenso, la sua obiezione. La fermezza della coscienza… prima di tutto. Come Aldo Capitini, come Don Milani. Era il suo modo di esprimere l’obbligo morale e civile di indignarsi di fronte ai più o meno evidenti abusi, alle ingiustizie perpetrate nei confronti dei uomini e dei luoghi; per i quale usava spesso il termine “terricidio”. Per questa sua franchezza era temuto dai politici locali, che di lui in fondo avevano paura. L’ho avrei voluto sindaco di Cesena. Lui sorrideva, ironizzava, sapeva nel suo intimo che la grandezza morale e la sua grande idealità lo poneva al di fuori da ogni confronto con gli “amministratori pubblici manager”, come tanto va di moda oggi.

Chiunque – con cariche politiche importanti – prenderà la parola per ricordare Michele, nelle prossime settimane dovrebbe, a mio parere, iniziare con un piccolo ma significativo gesto: chiedere scusa. Chiedere scusa a Michele per averlo così poco ascoltato, per averlo in un certo senso tante volte snobbato, per non avergli affidato il ruolo che dignitosamente meritava.
E’ vero di ogni uomo e di ogni donna ma di Michele in particolare: “una settimana fa s’è bruciata una biblioteca vivente!”.
16 febbraio 2002

GLI AQUILONI di Medio Calderoni

Sono tanti gli artigiani nelle città di provincia che passano una vita dentro antri odorosi costruendo con perizia ed amore oggetti d’ogni genere e degni d’attenzione e di lode. Tra questi, nella città di Ravenna, Medio Calderoni, il “tappezziere” si distingue per un invasamento creativo, un furore giocoso e allegro che ha accompagnato fino alla vecchiaia il suo lavoro: costruire e far volare aquiloni.
Ora che è in pensione, nello scantinato di un modesto palazzo di periferia, ancora aggiusta divani per far quadrare i bilanci e ancora con diletto costruisce variopinti oggetti volanti.

Sui muri del suo laboratorio, ancora come un tempo, campionari di stoffe, telai di sedie e divani appesi a ganci, la fedele macchina da cucire, immagini di beltà femminile, foto d’aquiloni e foto d’amici, locandine di feste e tanti oggetti in misterioso disordine come in un atelier d’artista scapigliato. Le cose più vecchie odorano di quella polvere sospesa sulle vecchie ragnatele, che non si devono togliere perché le tessiture dei ragni portano fortuna. Nuovi aquiloni sono bellamente posati su alti ripiani, i modelli già collaudati sono parcheggiati in altri luoghi regalati a bambini o a qualche sperduto museo del mondo. Ha una venerabile età, ma gli ottantaquattro anni non diminuiscono lo slancio né la laboriosa ingegnosità che va oltre l’abilità manuale. Medio è infatti un affabutatore capace di ammaliare con trovate narrative le orecchie più sorde e meno abituate al rito dell’ascoltare. Può capitare di assistere allo show narrativo di Medio che racconta ad una signora le imprese aquilonistiche più recenti che si tramutano per qualche passaggio intertestuale in ricordi di una vecchia moto avuta in gioventù, e a quella volta che incontrò la sua moglie veneta in un piccolo paesino non si sa dove e ancora.
Dalle sue mani escono con grande facilità creativa vascelli, farfalle, aerei, uccelli dalle grandi ali e incantevoli piccoli aquiloni ritoccati da minuti elementi decorativi. Caratteristica subito appariscente del suo lavorare è il rifiuto, bonario peraltro, cioé non avvelenato da rancore, o d’ogni tecnicismo esasperato. Non usa tessuti sintetici, telai in lega super leggera, e lontano anche solo dal pensare di programmare modellistiche di volo su basi ingegneristiche. Disegna su una vecchia agenda le sue idee; da questi bozzetti già vede e intuisce le possibilità realizzative, le eventuali modifiche, l’estensione e gli sviluppi realizzativi. Come i bravi costruttori di giocattoli naturali, sa che si deve raccogliere per tempo, nella stagione dovuta i materiali da utilizzare per costruire. Conosce ogni angolo attorno alla sua casa, mappa il territorio censendo i luoghi dove sa di trovare ciò che serve. Usa canne palustri e di fiume che raccoglie sui rivoli e nei fossi. Le taglia con il suo fedele coltello, le seleziona con cura e quando sono asciutte e secche, le seziona in listelle. Per modellarle, le scalda sulla fiamma di un fornello a gas, perché caratteristica dei suoi modelli è la forma ben plasmata, come una scultura. Crea rotondità, strutture a rete, angoli di presa del vento, superfici di utilizzo del vento. Preferisce tipi di colla diversi in funzione dei diversi significati d’uso dei materiali; per scaldare gli snodi, colla vinavil, per gli angoli di presa e di massimo sforzo strutturale il bostik, per impastare la carta, colle viniliche o d’acqua e farina. Risolve con sapienza intuitiva arditi problemi aerodinamici, ogni modello necessita soluzioni inventive diversificate; una nave sarà imbrigliata al pennone, un’oca selvatica sotto la struttura tubolare della pancia, la ruota gira tra le ali a forma di deltaplano.
Alcuni tra questi modelli sono riconosciuti come tra i più originali e innovativi tra quelli creati in tutto il mondo. Per questa ragione è conosciuto in tutto il mondo un “maestro”; è inoltre uno dei fondatori della benemerita “CERVIA VOLANTE”, associazione di aquilonisti italiani. In Norvegia, dove è stato invitato per un incontro tra grandi aquilonisti, ha involato la sua famosissima Nave Vichinga suscitando l’entusiasmo e la compiaciuta riconoscenza di appassionati maestri giapponesi e americani. Ma Medio Calderoni è persona di squisita disponibilità, sempre pronto a stare con i bambini e volentieri partecipa a meeting, festival, raduni, costruendo per tutti piccoli e simpatici modelli.
Bravura, allegria, disponibilità: ecco i doni di questo signore che ama gli aquiloni e rende più leggero il mondo e più sopportabile.

Roberto Papetti
Centro Gioco-Ecologia “La Lucertola”RAVENNA

Il sito dedicato a MEDIO CALDERONI | Un PICCOLO VIDEOCLIP su MEDIO che gli feci poco prima di morire

Ci ha lasciato Ivan Illich
non possiamo dimenticare le sue provocazioni!

Ivan Illich addio!
Il 3 dicembre 2002 a Brema in Germania è morto Ivan Illich.
E’ una notizia che mi ha colpito profondamente per la stima, l’affetto, la venerazione che provavo per il pìù grande demolitore di miti del nostro tempo. Tutti quelli che in giro per il mondo hanno pensato di rinnovare in meglio, da qualche parte e in qualche modo, la società nella quale viviamo non possono non aver letto i suoi libri o ascoltato le sue parole che non ti facevano distrarre neanche per un secondo

Lo ricordo l’estate dell’anno scorso a San Rossore al Glocal Forum di Martini ( sia benedetto per aver fatto di tutto per portarlo fin lì) che timidamente diceva rivolto all’arcivescovo di Pisa:-Noi quì oggi non possiamo non riflettere da dove venga il concetto di “globale”: ecumenico, chatolicos, universale….Dobbiamo rileggere Gandhi e disobbedire alle istituzioni, agli ordini professionali che ci dicono come fare i bagni, le case, le scuole, come curarsi.Dobbiamo ritardare gli ordini di Bruxelles, i brevetti sui semi e su tutte le forme viventi ammesse ad essere brevettate. Resistenza passiva a Prodi.- Ci siamo salutati lì, fugacemente, doveva ritirarsi per prendere i calmanti per la malattia che da dieci anni devastava una delle facce più belle del pianeta.Non credo ci sia bisogno di precisare che ero andato fin lì con Daniele di corsa, per vedere lui, per ascoltarlo ancora una volta.Ho il rimpianto di non aver fatto in tempo a ricevere le risposte alle mie domande su Dio. Addio Ivan, ci rivedremo un giorno se il Signore unico di Abramo, Isacco e Giacobbe sarà d’accordo. I tuoi amici della cooperativa Alce Nero, dopo Lanza del Vasto, Alex Langer, e Sergio Quinzio ora hanno perduto anche te, e siamo sempre più soli.
Gino Girolomoni (fondatore della 1° Cooperativa Biologica in Italia, Alce Nero).

Intervista ad Ivan Illich
{tratta da L’Inventario della Fierucola, Nƒ 21/22, agosto 2002}
Queste domande sono state inviate dal giornale La Stampa nel luglio 2002, ma le risposte non sono state pubblicate.


1) Proprio a San Rossore, l’anno scorso, lei auspicava una scossa alle “sicurezze profonde” che accompagnano le idee di “progresso” e le dinamiche con cui il mondo viene manipolato e ridotto ad un oggetto di ingegneria. Però accusò anche i no global e il “supermercato delle propostine” che sarebbe stato il G8 di Genova. Cosa pensa del movimento di Seattle, in Italia, in America, in Germania?

L´anno scorso Monsignor Alessandro Plotti ha risposto con un gesto, un abbraccio, a questa domanda. Come Vescovo di Pisa era fra coloro che davano il benvenuto alla nostra assemblea nel grande tendone da circo montato per l´occasione a S.Rossore. Non avevo mai incontrato il Vescovo e fui toccato dalla vibrante semplicità della sua esposizione: nel suo breve messaggio non c´era traccia di cinismo, né il minimo sapore di mania apocalittica ma nemmeno un cenno a una qualche raccomandazione pratica. Ma poi emerse il predicatore: l´uomo di Chiesa che perorava la causa dei milioni di “prossimi” che attendevano il nostro aiuto. Questa descrizione di un mondo pieno di “prossimi” che aspettano il nostro esempio e i nostri euro mi fece rabbrividire. Subito dopo venne il mio turno, con il massimo rispetto dissi a sua eccellenza che ero rimasto scioccato dal suo uso del mistero cristiano, di un´amicizia squisitamente personale e liberamente scelta, per lo scopo di finanziare agenzie globofile o globofobe che fossero. Confidai al moderatore la mia angoscia nell´affrontare questo argomento davanti a un pubblico come quello che avevamo di fronte, ma sentii che dovevo fare un passo avanti. Questo!: A Gesù fu chiesto “Chi è il mio prossimo?” e rispose raccontando del Samaritano. Oggi diremmo: questo Palestinese sulla via di Gerico vide quello che due ebrei prima di lui avevano visto: un uomo picchiato e ferito, per lui straniero. Gesù dice che fu toccato fin nelle viscere e lo prese fra le braccia. Lui, il Samaritano, con le sue viscere e il suo cuore, è diventato l´esempio di una possibilità umana interamente nuova. Ma una cosa che sicuramente il Samaritano non era: un fornitore di servizi! Eppure l´idea di una res publica come fornitrice di servizi è cresciuta indubbiamente al di fuori della rivelazione cristiana secondo la quale ognuno di noi è capace di tessere quell´unica grazia, amicizia che è la charitas. La Chiesa, la mia Madre Chiesa è stata pioniera delle case per i poveri, degli ospedali, delle scuole per l´istituzionalizzazione della carità! A questo punto mons. Plotti si alzò, venne verso di me all´estremità opposta del tavolo, mi guardò e mi abbracciò.

2) Conosce, o legge, qualcuno dei guru no global (Klein, Shiva, George, persino un economista ex Banca Mondiale come Joseph Stiglitz)?

Per diversi decenni ho coltivato la compagnia di amici che hanno voluto condividere la riflessione sulle moderne certezze derivate da una perversione della rivelazione cristiana. La novità contenuta nella parabola del Samaritano rivela un´inaspettata capacità umana di ogni persona: la capacità di creare un legame d´amore al di là di ogni legame familiare o tribale. Appare sorprendente che la Chiesa (soprattutto quella occidentale) nel suo secondo millennio abbia sostenuto la costituzione legale di agenzie che offrano cosiddetti “servizi” a clienti sulla base di astratte qualificazioni. E ciò già dall´epoca di Bisanzio. La parabola racconta una storia mai sentita prima: un palestinese è colpito nelle sue viscere e per conseguenza cambia direzione, lascia il suo viaggio verso Gerico entra nell´erba alta a prendere questo straniero fra le sue braccia. I servizi istituzionalizzati comportano l´esatto contrario di tutto ciò: non l´amore, simile all´amore gratuito di Dio verso le sue creature, ma una specie astratta di lealtà, un´astratta responsabilità chiama allo “sviluppo” per fornire “servizi” a clienti, eufemisticamente definiti “prossimi”. Gli amici con cui m´incontro regolarmente vogliono esplorare le fasi storiche attraverso le quali l´uomo è arrivato a considerarsi un essere bisognoso dallo sperma fino al cadavere o al suo verme. Per mantenere una distanza da questa certezza a proposito dei bisogni abbiamo cercato di praticare un certo stile di vita: accettare per se stessi una mancanza di casa che tradizionalmente viene accolta dal senso di ospitalità dei popoli nomadi. Ci siamo sostenuti a vicenda nell´accettare il ridicolo e il disprezzo che inevitabilmente attrae un anticipatore in una disciplina in cui diventa “stravagante”. In questi molti anni abbiamo ospitato molte belle persone estremiste. Nella domanda si parla di “gurus”. Ho cercato di evitare questa parola ma mi interrogo sul senso che gli date. Fin dalla metà degli anni ´60 ho avuto vicino tanti coraggiosi insegnanti dotati o esperti e a volte tutt´e due, che hanno messo alla prova veramente da molti punti di vista l´innocenza dello “sviluppo”. Quasi tutti loro hanno avuto in comune la condizione, per accettare i servizi delle istituzioni, che come minimo non diventassero un ostacolo per un stile di vita caritatevole sia di coloro che ricevevano i servizi che dei burocrati che li davano. Comunque, e questa è la cosa più triste, più che cresceva la critica allo sviluppo negli ultimi 50 anni più diventava difficile toccare il tema chiave: la charitas.

3) Le fa effetto essere considerato uno dei leader libertari, accanto a figure diversissime come Chomsky e José Bovè?

In quel circolo di una dozzina di amici stretti che s´incontrano regolarmente per criticarsi e godere della compagnia reciproca, ciascuno sa bene perché ha bisogno di coltivare una disciplinata stravaganza, ma ciascuno è sulle tracce di un gioco diverso, un aspetto diverso della storia delle sicurezze. Non si può seguire molto a lungo la storia dei servizi senza chiedersi come i “valori” abbiano preso il posto del bene, come gli equilibri umorali della medicina galenica siano stati soppiantati dalla “salute” iatrogena, come la musica fatta di proporzioni ed armonie sia diventata l´arte di arrangiare una scala di suoni temperati, come l´ideale di una democrazia fondata sulla separazione dei poteri sia diventata l´eufemismo di un management pubblico di regole amministrative convalidate da una congiura fra burocrazie pubbliche e agenzie professionali.

4) Lei sostiene che “c’è una possibilità completamente nuova di praticare la resistenza passiva”, nei confronti di dinamiche e di regolamentazioni maturate a livello internazionale. Come si mette in pratica? è una disobbedienza civile?

Qualcosa a che fare con insegnamenti gandhiani? Può darsi che in questo momento storico, la resistenza nonviolenta o passiva debba presupporre di capire quello che è successo nel frattempo: Gandhi parlò quando “il bene” non era stato ancora sostituito coi valori; almeno non in un modo paragonabile a quanto succede oggi. Resistere al male può essere una forma di testimonianza, non la resistenza a “valori” sbagliati.

5) Quali sono i falsi miti da denunciare? Progresso, salute, sviluppo economico indefinito?

Salute, sviluppo, educazione, progettazione, pianificazione mi sembrano miti che avrebbero dovuto essere capiti negli anni sessanta e settanta… vedi la risposta alla prima domanda. Essere cristiani in una società votata allo sviluppo è una stravaganza.

Alex Langer
un piccolo uomo dal cuore grande

E’ bene riflettere sul nostro modo e sul nostro stile di far politica. La memoria di un politico estremamente originale ci è sicuramente di aiuto. Firenze, Pian dei Giullari, 3 luglio 1995, 10 anni fa. Alex Langer, Eurodeputato, eletto con i voti della nostra circoscrizione, pone fine alla sua vita. In uno dei tre biglietti che lascia agli amici, scrive: “i pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più”. Alex ci ha lasciati in un momento in cui era triste e solo.

Ha lasciato trionfare la disperazione, quella disperazione che in quei giorni si abbatteva tremendamente sulle città della Bosnia e che oggi rivediamo nel Kosovo e nella Serbia.
Di origine alto-atesina, non accettò l’idea della “gabbie etniche” e non volle autodichiararsi né tedesco, né ladino e tantomeno italiano. Aveva posto volontariamente una delle sue dimore in Bosnia. Era certamente un “cittadino del mondo” pur conservando fortissime le sue radici fra i monti dell’Alto-Adige/Sud Tirolo.
Per tanti e tante volte è stato portatore di speranza, viaggiatore coraggioso di strade non ancora percorse. Non ha mai avuto il tempo di scrivere un libro e così gli amici, in questi anni, hanno raccolto i suoi scritti in diverse pubblicazioni cartacee o informatiche. La più significativa é certamente il libro “Il viaggiatore leggero” (Sellerio edizioni, Palermo 1996) in cui sono raccolti gli scritti dal 1961 al 1995.
Sono articoli per giornali e riviste, testi di interviste e colloqui, ritratti di persone e resoconti di viaggi, incontri e amicizie, appelli per campagne, confessioni personali e lettere.
In una di queste, il messaggio al Vertice dei piccoli, in occasione del G7 di Napoli, Langer confrontava la grande potenza di comunicazione dei grandi, con le loro televisioni, radio, stampa, cinema, altoparlanti e pubblicità, con quella dei piccoli, che si ritrovano “con la propria debole e magari qualificatissima voce che circola in un ambito in cui esiste reciprocità, possibilità di interrogare e di interrompere, facoltà di inter-agire, costruzione di un discorso e di una sensibilità comune tra persone: qualità senza moltiplicazione, verità senza ascolto”.
E così proseguiva :” grandi silenziate per un pò i vostri altoparlanti, moderate le vostre televisioni, limitate le vostre pubblicità, contenete le vostre telenovelas…lasciate almeno degli interstizi, spazi che non possono essere venduti alla finzione, ma solo da chi è piccolo e radicato nella quotidiana realtà dei piccoli”.
Langer era un politico che aveva scelto di stare dalla parte dei piccoli, dei perdenti, ma aveva un cuore grande, occhi e orecchie attenti alla sofferenza del mondo e sulle sue spalle questa sofferenza ha pesato.
È anche in suo ricordo e in suo onore che esce GAIA nonviolenza – ecologia – tecnologie appropriate, un titolo che sicuramente Alex avrebbe apprezzato.
Chi scrive su questo giornale ha sicuramente scelto di dar voce ai piccoli di oggi, quelli che per Alex “mancano di soldi o di carte di credito, di diplomi ed impieghi, di pane e di casa, di influenza e di fama, di armi e di laboratori”.

SAURO SPADA
le parole con cui abbiamo salutato l’amico e grandi scrittore in romagnolo

Questi giorni d’ottobre hanno una profonda dolcezza; i cieli mutano e le nuvole vanno lontano. Sabato 13 ottobre 2007 se ne è andato Sauro Spada, un monumento per la Romagna. Sentiamo il bisogno di fissare il suo sguardo, facendolo durare più del tempo, donandogli un briciolo dell’affetto, che sempre ci ha dimostrato. Sauro era un uomo libero, con una sua personale e grande dignità, capace sempre di profonda autonomia di pensiero. Sauro era uomo semplice e delicato, inquilino di un mondo cialtronesco, nel quale stava ritto, in piedi, sull’attenti.

E sull’attenti sta quella lingua che a tanti ha fatto da mamma: il romagnolo. E’ stato uno dei più importanti scrittori in prosa romagnola; sue le pubblicazioni “LA TRAVERSEDA”, “E CASTEL DI BURATAIN” “II’ INCANTÈ”.
Ancora suo l’impegno per mantenere viva la memoria di uno dei più importanti romagnoli del novecento, suo zio: l’ anonimo romagnolo.
Sauro ci mancherà davvero tanto, perché era cordiale, onesto, profondamente amico, un signore di altri tempi. Era uno di quei pezzi di Romagna che non deve e non può sparire, aveva una ricchezza di conoscenze, era un fiume in piena di aneddoti, sapeva le storie, tante storie della gente.
La Romagna, tutta la Romagna perde una voce, perde un intellettuale impegnato da sempre per il riscatto della nostra terra fatta di contadini divenuti cittadini, di cittadini che dovranno tornare contadini.
Era curioso di tutti e di tutto e si muoveva nel mondo della cultura con sicurezza.
Sauro ci mancherà anche perché era persona orgogliosamente al singolare, con la sua gentilezza, con la sua voce piena, con la stretta di mano forte, col sorriso un po’ bambino, con l’occhio vigile sul mondo.
Ne piangiamo oggi la scomparsa; ma abbiamo la gioia di averlo avuto vicino. Vogliamo continuare il suo lavoro fatto di sogni chiari carichi di luce.
Ciao Sauro, noi ti teniamo nel cuore.

14 ottobre 2007

Gianfranco Zavalloni
Vittorio Belli
Fabio Molari
Daniele Zavalloni
Gruppo “Briacabanda”

Friedrich Hundertwasser ovvero “quando la linea retta è atea”

In una società e in una scuola, basate sul mito della scienza e della perfezione, dire che “…la linea retta è atea” è come incamminarsi sulla strada dell’eresia. L’eretico che ha avuto il coraggio di affermare ciò, nel secolo della matematica e del razionalismo scientifico (aprendo a tutti noi gli occhi!) è Friedrich Stowasser, nato a Vienna nel 1928 e che dal 1950 assunse il nome di Friedensreich Hundertwasser. Nelle lingue slave il termine sto significa “cento”, wasser significa “acque” e friedensreich vuol dire “regno di pace”. In altri termini: regno di pace a cento acque. Più tardi si aggiunsero altri pseudonimi: “Dunkelbunt” (“policromo scuro”: perché era la concentrazione massima di un colore saturo) o “Regentag” (“giorno di pioggia”: perché i colori sotto pioggia risplendono maggiormente).

Fin da bambino Hundertwasser sviluppa una forte passione per l’arte. Frequenta per alcuni mesi la Wiener Akademie der bildenden Künste e assume le tecniche basilari del disegno figurativo e del nudo. Nei suoi numerosi viaggi studio in Italia, Francia, Spagna, Marocco e Tunisia acquisisce importanti stimoli per la sua crescita personale ed artistica, in particolare dai maestri: Schiele, Klimt, Gaudì, Klee e Kampmann. Presto scopre il linguaggio della serigrafia, con cui crea stampe a tiratura illimata. Negli anni 50 sviluppa una sua personalissima e inconfondibile forma d’arte: crea pitture, stampe, francobolli, manifesti, bandiere, scrive libri… Ma non solo: progetta singoli edifici in osmosi con la natura (mette alberi sui tetti delle case) e pensati come organi vitali. E poiché la vita non lineare, non è razionale, bensì colorata e multiforme riflette ed elabora l’idea che la linea retta è “atea” o “immorale”, poiché in natura non si trova, non esiste.
Diceva poi: “Dipingere è sognare. Quando dipingo, io sogno. Quando il sogno volge al termine, non mi ricordo più nulla di quello che ho sognato, ma il quadro resta. È la raccolta del sogno.” Sognatore, artista, ecologista e architetto: Hundertwasser concretizza questi quattro ambiti della sua vita (sintetizzati a parole nei suoi “manifesti” e nei suoi “appelli”) attraverso sue opere artistiche, ma soprattutto progettando e costruendo edifici: case, chiese, autogrill, terme, scuole, musei…
Anche il mio personale incontro, del tutto casuale, con l’opera e la filosofia di Hundertwasser, avviene attraverso un edificio. Di passaggio a Vienna, alcuni anni fa, mi imbatto nella Hundertwasserhaus (in italiano casa di Hundertwasser), un complesso di case popolari costruite su disegno dello stesso Hundertwasser. Si trova nel quartiere di Landstraße, a sud del centro città. Qui l’artista ha voluto “far vivere il piacere di abitare” agli inquilini dei circa cinquanta appartamenti dello stabile. Le linee dei muri sono morbide, non essendovi spigoli vivi, le facciate sono dipinte a colori vivaci e decorate con ceramiche colorate, in ogni terrazza vi sono giardini pensili che servono a portare il verde in ogni abitazione. Molti materiali utilizzati, come, ad esempio, le ceramiche delle decorazioni delle facciate, sono di recupero. Oggi la Hundertwasserhaus è una vera e propria attrazione turistica tant’è che sono sorti negozietti, bar, chioschi e caffetterie nelle immediate vicinanze. Perfino i servizi igienici sono in stile, infatti fanno parte delle “toilet of modern art” dove ceramiche decorative, fontane e colori sgargianti rendono allegro e piacevole anche questo ambiente.
il sito italiano su F. Hundertwasser

Tonino Guerra e la bellezza della parola

LA POESIA E IL MONDO DELLE MARIONETTE
Catin e Tonino, come Olio e Stanlio, Gianni e Pinotto… insomma una coppia dello spettacolo. Così è! Ma non parliamo di cinema, di televisione e di comiche. Parliamo di Tonino Guerra e di Catin Nardi.
Tonino Guerra è uno dei più grandi sceneggiatori viventi, ma anche sapiente poeta.
Catin Nardi è un giovane e valente marionettista, nato in Argentina, di origine italiana e vivente in Brasile. È da questa miscela che nasce lo spettacolo La bellezza della parola – Omaggio alla poesia di Tonino Guerra.

Tre marionette, con il volto del bambino, del giovane e dell’adulto Tonino Guerra, costruite e animate da Catin e recitate dallo stesso Tonino.
Ne esce fuori uno spettacolo di incommensurabile bellezza, a cui fanno da contorno, evocando emozioni, le musiche composte dal figlio di Tonino: Andrea Guerra.
L’idea del progetto è maturata nell’Ufficio Scuola e Cultura del Consolato di Belo Horizonte (Brasile), dove lavoro dal settembre del 2008. Nella mia funzione di dirigente scolastico mi trovo spesso a viaggiare per la Circoscrizione Consolare, e così, visitando Mariana (l’antica e prima capitale dello stato del Minas Gerais) ho scoperto l’atelier-museo-teatro delle marionette della Compagnia Cia Navegante. La dirige Catin Nardi, che subito ha riconosciuto in me le comuni origini italiane e la passione per il teatro dei burattini. Dopo pochi mesi, grazie alla collaborazione del maestro Beppe Trapè, collega di mia moglie Stefania, troviamo il ramo italiano della famiglia Nardi, da cui si era staccato il nonno, partito emigrante a 17 anni, nel 1923. Da Francavilla d’Ete (Ascoli Piceno) a Santafè (Argentina). E così Catin, nel maggio del 2009, parte per incontrare la nonna/zia di 97 anni, tuttora vivente nella terra d’origine. Con sé porta una valigia di marionette, con le quali partecipa al Festival Artisti in Piazza di Pennabilli.

Ed è a Pennabilli, presso la Fondazione Tonino Guerra, che il cerchio si chiude e si incontrano per la prima volta Tonino e Catin. È subito stima e grande affetto artistico. Tornato a Belo Horizonte, durante il racconto di questa avventura, nasce l’idea, poi maturata, di realizzare uno spettacolo sulla poetica del maestro Guerra. E questa è ormai cronaca di queste ultime settimane: i ritocchi, gli accessori, la base musicale, le poesie recitate, un continuo contatto via internet (skype, emails…) fra Marche, Brasile e Romagna.

Durante questo ultimo anno sono stato spesso nel laboratorio di Catin Nardi e ho visto nascere le marionette che saliranno alla ribalta per festeggiare i 90 anni di Tonino Guerra (nato a Santarcangelo il 16 marzo del 1920), che verrà omaggiato dall’Accademia Mondiale della Poesia di Verona.

Ho visto l’amore di Catin per quei pezzi di legno che, con fili e stoffe, piano piano sono diventati marionette con voce e anima. Capisco bene ora perché Catin, nel suo indirizzo di posta elettronica, usa lo pseudonimo di Geppetto: moderno babbo del Pinocchio Tonino.
Le foto della preparazione dello spettacolo >>>
Per visionare un piccolo assaggio video dello spettacolo

Ilario Fioravanti, l’artista che emoziona

IL SENTIERO DEI SASSOLINI COLORATI
Progetto per un museo di Ilario Fioravanti a Sorrivoli

1. Ilario Fioravanti, un artista che ha scelto Sorrivoli

Ilario Fioravanti è nato a Cesena il 25 settembre del 1922. Fin da giovanissimo, prima con il disegno poi attraverso l’incisione e la scultura, si avvicina alle arti figurative. Nel 1949 si laurea in architettura a Firenze. La professione di architetto, che svolge vincendo concorsi e realizzando edifici pubblici, di culto e privati, pur allontanandolo per circa quindici anni da un rapporto continuativo con l’attività artistica, non lo distacca tuttavia da una necessità “organica” di testimoniare ogni sua emozione ed esperienza attraverso il disegno.

Negli anni sessanta-ottanta si appassiona e approfondisce le espressioni artistiche arcaiche. Guarda con molto interesse l’arte egizia, le terrecotte della civiltà meso americana, le sculture nuragiche, l’arte etrusca e quella africana, nel quale sostiene di trovare “l’uomo, non il gigante”. In questo periodo ritorna alla scultura, realizzando una serie di ritratti in cui rivela vivo interesse a ricercare ee indagare l’uomo, in una dimensione che, maturando, non è solo analisi introspettiva, ma esplosione, compartecipazione vitale.
Nel 1988 viene curata una sua personale presso la galleria comunale d’arte di Cesena.
È il legame con Giovanni Testori che cambia la vita di Fioravanti, lo fa conoscere ad un ampio pubblico di ammiratori. Nel 1990 l’artista, per volontà di Testori, espone presso la “Compagnia del disegno” oltre 40 terrecotte.
È poi tutto un susseguirsi di mostre, incontri, progetti, creazioni, che riempiono la sua esistenza, senza dubbio straordinariamente feconda e felice.
Gli sono affettuosamente legati molto esponenti di primo grado dell’arte e della cultura italiana, tra cui il critico d’arte Vittorio Sgarbi ed il poeta-sceneggiatore Tonino Guerra.
Citare le produzioni di Fioravanti può anche voler dire fargli torto, tanto sterminata e straordinaria è la fecondità artistica. Ci limiteremo a tratteggiare il suo rapporto con Sorrivoli. questo borgo il cui castello è “appeso ad un filo d’argento che scende dalle stelle”.

2. Il Castello di Sorrivoli accoglie Ilario
Possiamo parlare di “maturità del tempo”: da una parte il castello di Sorrivoli, che ha incerte origini (era luogo nel quale i Vescovi ravennati venivano in vacanza), sentinella nella Valle del Rubicone cesenate. Oggi il castello è in una fase avanzata di restauro. E poi Ilario Fioravanti: cittadino di Sorrivoli, nella sua casa antica, un tempo mulino per l’olio. L’artista da oltre trent’anni ha scelto Sorrivoli come sua patria ospitale. La sua casa è punto di incontro di artisti e già Museo Fioravanti, in quanto contiene una grande quantità di bronzi, terrecotte, dipinti.
In questi ultimi tempi, poi, nel territorio comunale di Roncofreddo si è venuto a creare un Museo Diffuso dedicato all’artista: le opere contenute nella Chiesa Parrocchiale di Gualdo (da lui progettata insieme alla Scuola dell’Infanzia); Amedea Ferretti posta in centro a Roncofreddo; Saffo e San Simeone il Salo, altri bronzi collocati a Sorrivoli. Sempre in questo borgo è in fase di realizzazione la ristrutturazione della Piazza Roverella (che probabilmente ospiterà altre opere dell’artista) ideata da Ilario Fioravanti.
È tempo che si dia un segnale forte, che il castello di Sorrivoli, in alcuni suoi ambienti, ospiti un percorso d’arte e di poesia dedicato a questo uomo di cultura e di territorio.

3. Il ritratto di un uomo
È opinione diffusa che il luogo ideale per accogliere questa raccolta siano le cantine del castello. Ambienti ampi, a volta, in pietra stuccata. Gli enti promotori dovrebbero essere, tra gli altri, la proprietà nella figura legale della Curia Vescovile di Cesena (la Parrocchia S.Aldebrando di Sorrivoli), ed il Comune di Roncofreddo. A seguire enti pubblici e associazioni.
Le varie realizzazioni saranno come …sassolini colorati: il frutto di una vita lunga e intensa, sempre sulle ali di una incredibile capacità creativa.
L’idea iniziale parte da tre situazioni diverse che si incontrano:

A. Le foto, le parole, i momenti
Pannelli, allestimenti, testimonianze scritte e fotografiche che illustrano la storia di un uomo, il suo tempo, i suoi messaggi di filosofia quotidiana, il suo lavoro, la sua potenza iconografica e plastica, il suo rapporto di tenerezza con Sorrivoli.

B. I ritratti
Un tema forte che si ripete e si rinnova. I volti, quasi immagini evangeliche, di chi a Sorrivoli ci vive, ed è stato “catturato” dagli occhi attenti dell’artista e fermato per sempre sulla carta. Sono sanguigne, dipinti, carboncini di tante e tante persone che fanno vivere e colorano il territorio.

C. Le terrecotte
Forse Fioravanti raggiunge gli apici della sua espressione artistica nel plasmare, nel prendere la terra e farne ciò che vuole. Questa rassegna di persone parla con forme, i volti, gli sguardi e soprattutto il cuore mai domito, di un uomo che per forza creativa si è avvicinato a Dio ed è salito in alto, molto in alto, dove la bellezza è unicamente luce.
Molari Fabio, Magalotti Riccardo, Turci Marco, Bagnolini Tiziano, Zavalloni Gianfranco
5 maggio 2007

Il sito internet su Ilario Fioravanti: http://www.ilariofioravanti.it/it
Ilario Fioravanti ci ha purtroppo lasciati, sotto una grande neve, alla fine di gennaio dei questo 2012.

Alberto Manzi e l’America Latina Dalle Ande all’Amazzonia

PREMESSA – Il mio incontro con Alberto Manzi – Non ho avuto la fortuna di conoscere di persona il maestro Alberto Manzi. Nonostante ciò mi avventuro nella scrittura di questa riflessione sull’onda della incredibile emozione che ho provato, in questo ultimo periodo, nel riscoprire la grande figura di un educatore, passato troppo presto in sordina, e nello scoprire aspetti inediti della sua personalità. Credo però di avere apprezzato e avere conosciuto il suo stile didattico per i tanti “incontri indiretti” che ho avuto nel corso dei miei trent’anni di scuola come docente e dirigente scolastico.

In tutto questo, devo confessare, un ruolo decisivo lo giocano le “coincidenze” e i “parallelismi” fra la mia esperienza e quella di Alberto Manzi. Prima di tutto l’esperienza fra i popoli indigeni delle Ande del Sud America ed in particolare nel Perù. Forse è stato un puro caso se nell’estate del 1982, e in alcune estati successive, non ci si sia incontrati in quelle terre, dove sia Alberto e sia io eravamo impegnati in attività di volontariato.
All’inizio degli anni ’80, quando la mia carriera da maestro era appena cominciata, lessi di Alberto Manzi su un rotocalco. Ricordo perfettamente che l’articolo parlava del suo rifiuto di apporre nella pagella un “giudizio di valutazione” e della conseguente sanzione disciplinare con sospensione dello stipendio. La stima per Manzi “collega” (di cui, negli anni dell’adolescenza e giovinezza, non sentii più parlare) fu subito immediata. Io, da posizioni “nonviolente” insieme ad un collega “anarchico” avevamo da poco rifiutato di pronunciare la “promessa solenne” e il successivo “giuramento” e per questo eravamo in un sorta di limbo. Di lì a pochi mesi, se avessimo persistito nel nostro rifiuto, saremmo stati licenziati. Ma sono stato educato all’idea che il mondo possa migliorare e le leggi possano essere cambiate. È così che grazie anche al sostegno del Presidente Pertini, il giuramento per gli insegnanti, proprio in coerenza col dettato costituzionale, fu abolito nel giro di poche settimane.
Anche Alberto Manzi credeva in queste battaglie ideali, in cui l’intelligenza dell’uomo e l’accresciuta consapevolezza può favorire leggi e normative più “a misura umana”.
Nella mia esperienza scolastica trovo quindi molte affinità con quella di Alberto Manzi e nell’accingermi ad affrontare il tema “Manzi e l’America Latina” suddivido il mio contributo basandomi su 4 pilastri che posso così sintetizzare:

1. SCUOLA E DIDATTICA
2. TELEVISIONE E COMUNICAZIONE
3. LIBRI E DOCUMENTAZIONE
4. AMERICA LATINA E INTERCULTURA

SCUOLA E DIDATTICA – Priorità dell’esperienza didattica rispetto alle teorie pedagogiche – Mario Lodi, Don Lorenzo Milani, Margherita Zoebeli, Giovanni Catti, Gianni Rodari, Danilo Dolci, Aldo Capitini, Otello Sarzi, Federico Moroni, Bruno Ciari, Loris Malaguzzi, Bruno Munari, e naturalmente lo stesso Alberto Manzi. Maestri nati a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale. La loro storia è quella di chi ha studiato negli Istituti Magistrali che dovevano prepararsi ad “italianizzare” l’Alto Adige, da poco “redento”. Le magistrali erano allora l’unica scuola superiore gratuita per gli studenti, poiché lo stesso Duce, che per l’appunto era maestro, a suo tempo le aveva frequentate. Ma è da quella generazione che nascono poi gli insegnanti del secondo dopoguerra che fondano il loro lavoro non tanto sulle teorie pedagogiche, quanto sui valori concreti della Costituzione. Con loro si respira un nuovo clima. Sono anni carichi di sperimentazioni e si producono riflessioni pedagogiche che possiamo sicuramente ricondurre alla cosiddetta “scuola attiva”. Nessuno di loro si rifà ad una teoria filosofica o pedagogica. Tutti “fanno esperienza sul campo”, poi riflettono, scrivono, documentano, divulgano. Manzi ha forse un’opportunità in più: la televisione, quella nascente, quella dei primi anni. E la usa in maniera efficace, sperimenta modalità sconosciute di comunicazione. Il suo stile è quello del grande comunicatore, nonostante allora i mezzi e gli effetti multimediali fossero limitati rispetto alle potenzialità tecnologiche odierne. Per questo suo sperimentare ciò che nessuno aveva fatto fino a quel momento con il mezzo televisivo, diviene poi un “esperto” e scrive come autore innumerevoli sceneggiature. Di molte di queste ne è anche regista e conduttore.

TELEVISIONE E COMUNICAZIONE – Uso della comunicazione visiva con particolare attenzione al disegno – Manzi era un grande comunicatore. Era forse una dote spontanea? Non saprei dare una riposta. Di sicuro il suo modo di comunicare è di grande efficacia. Possedeva la tecnica tipica dell’uomo di teatro: unire parola e immagine. Poche parole, ben calibrate, per esprimere un concetto. Lo stesso concetto ripetuto con altre parole, per attrarre chi non ha per un attimo ascoltato e per permettere a tutti di fissarlo con attenzione. Poi lo stesso concetto viene illustrato e descritto con l’immagine. Una immagine che usando gessetti di carboncino nero, viene a formarsi progressivamente, su un grande foglio bianco da pacchi, fino a comparire nella sua chiara interezza solo alla fine. Una tecnica raffinata, veloce ma efficace. Pensavo al modo di disegnare di Alberto Manzi quando, nel giugno del 1979, mi accinsi a sostenere la prova di disegno all’esame “da privatista” di licenza nell’Istituto Magistrale di Forlimpopoli. Quella tecnica mi affascinava e quella tecnica mi ha accompagnato nei tanti anni da maestro di scuola materna. Incantare i bambini e le bambine raccontando storie, fiabe e piccoli racconti, accompagnandoli con le immagini che man mano si venivano a formare.

LIBRI E DOCUMENTAZIONE – Amore per la parola come strumento primo di emancipazione – Alberto Manzi conosceva molto bene il significato di “analfabetismo”. Un analfabetismo che mi piace definire “primario”: di chi cioè sa parlare e comunicare nella propria lingua familiare, ma non sa “leggere e scrivere” nella lingua della propria comunità nazionale, dove è di casa il “noi”. Alberto Manzi sa che sapere leggere e scrivere pone le persone ad un livello minimo di dignità. Possedere la parola in tutti i suoi aspetti permette di pensare con la propria testa, permette loro di migliorare la propria coscienza, permette di fare scelte in libertà. In quegli anni, quando ancora le cifre dell’analfabetismo si calcolano in milioni, c’è un altro maestro in Italia che si batte quasi esclusivamente per questo: dare la parola ai senza parola. É don Lorenzo Milani, nella sua piccola scuola parrocchiale di Barbiana. E per Manzi l’alfabetizzazione non è solo una questione italiana, ma un fatto universale, di tutti i popoli della terra. Lo sperimenta di persona quando si reca per la prima volta, come ricercatore in biologia, in America Latina. Sono più che mai convinto che, pedagogicamente parlando, una delle maniere per prendere coscienza, per avere una visione nuova su un problema, sia “viaggiare”. Spostarsi fisicamente da un luogo ad un altro modifica le proprie percezioni, diventa un fatto che incide e acquisisce valore pedagogico. E da quel momento Manzi è diverso. Emblematica è la risposta che dà a proposito della scrittura: “Mi chiede perché scrivo. Potrei dare risposte diverse. E forse sarebbero tutte vere e nello stesso tempo tutte false. Non so perché scrivo… Forse perché vivo. O lei vuole sapere perché affronto certi temi? In questo caso la risposta è più facile: voglio far sorgere nei giovani la coscienza dei problemi (coscienza, non solo conoscenza), far sapere loro che esistono certi problemi e che ognuno di noi è chiamato a risolverli. In fondo scrivo perché sono un rivoluzionario, inteso nel senso profondo della parola. Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, continuamente in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza della autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare”.
Nel cercare di avvicinarmi in profondità alla figura di Alberto Manzi ho scoperto, qui in Brasile, Padre Savino Mombelli, un missionario della congregazione dei saveriani, che vive a Belem nello stato del Pará. Gli chiedo di inviarmi notizie. Mi risponde con una bellissima lettera e scopro così un’altro aspetto della vita di Manzi e che me lo fa sentire ancora più vicino. È dal 1986 che collaboro ininterrottamente con la Rivista CEM Mondialità ed ora scopro l’esistenza di una lunga collaborazione dello stesso Alberto Manzi alla rivista.
Nella lettera Padre Savino racconta che «Passai al CEM una decina d’anni inframmezzati da una specie di vacanza e prima avventura in Amazzonia fra il ‘66 e il ‘67. Tra il ‘68 e il ‘71 decisi di cambiare le carte in tavola facendo si che il CEM  (Centro Educazione Missionaria) diventasse Centro Educazione Mondialità, quando il termine mondialità non si trovava ancora nei dizionari della lingua italiana. Conobbi Alberto Manzi a Roma nel ‘63. Abitava dalle parti di Piazza Bologna (fra la Nomentana e la Tiburtina) e fu lui che ci aprì la strada per mettere il CEM e la sua ideologia a disposizione dell’AVE (la casa editrice della Gioventù Italiana di Azione Cattolica che aveva sede a Roma presso la Domus Pacis) nella realizzazione di testi scolastici che contenessero un orientamento cristiano universalista. A Roma nel ‘64/’65 pubblicammo un’antologia per la scuola media con racconti e poesie di tutti i paesi del mondo. L’antologia “Il mondo è tutto mio” fece un grande successo ma non come vendite. Fece un grande successo nel senso che venne copiata e scopiazzata da tutti gli editori scolastici italiani, preparando l’arrivo di una nuova scuola italiana e di una nuova Italia, quell’Italia che a causa della Lega e di altre forze restringenti stenta ad affermarsi nei nostri giorni. Tra il ’63 e il ’64 Alberto era un divo della televisione a causa di “Non è mai troppo tardi” e si trovava, senza volerlo, totalmente d’accordo con la nostra tendenza alla mondialità. Alberto, come ti dicevo per telefono, si reggeva sugli stessi principi e motivazioni che erano stati di don Milani a Barbiana e, in seguito, saranno di Paulo Freire educatore brasiliano espulso dal paese durante la dittatura fascista (‘64/’84) perché nemico dell’insegnamento tradizionale borghese al cento per cento. Però l’insegnamento di Alberto non era ideologico come quello di Don Milani e di Paulo Freire. Era un insegnamento da maestro di paese, tanto semplice quanto adorabile. Direi che Alberto passava più vicino a San Francesco che ai due grandi da poco citati. Presso la televisione di Via Mazzini a Roma c’era un gruppo che lo odiava e che faceva di tutto per sostituirlo con proposte didattiche astruse e complicate. Ci riuscì, mi pare, soltanto negli anni ‘70/’80 assumendo maestri dalla cultura farraginosa e ingombrante di tipo patriottardo e fascista. Ai miei tempi (anni ‘60) i libri di Alberto erano venduti in tutta Italia ed erano usati nelle scuole elementari e medie. Riguardavano le scienze naturali – fisica, botanica, biologia, e prima ancora, le letture. “Orzowey” parlava di un ragazzo italiano che aveva incontrato un amico nel cuore dell’Africa, mentre la “Luna sulle baracche” era ambientato in America Latina, nella periferia di una grande città peruana. ….All’editrice Ave lavorava con noi, e prima di noi, Domenico Volpi già direttore de “Il Vittorioso”. Alcuni incontri annuali del CEM li facevamo insieme: io con Alberto e Domenico. »

AMERICA LATINA E INTERCULTURA – Attenzione ai poveri e diseredati – Del rapporto fra Alberto Manzi e l’America Latina poco si conosce. Lo si pensa in televisione, lo si pensa fra i suoi alunni della sua scuola, lo si pensa come Sindaco di Pitigliano negli anni precedenti la sua morte. Ma è dal 1955 (quindi 5 anni prima di iniziare il suo impegno in televisione) che Manzi sistematicamente, durante l’estate, si reca in Sud America. La prima volta in Amazzonia, per una ricerca con l’Università di Ginevra. Poi nasce la grande passione: i “popoli nativi”. La loro situazione sociale è priva di emancipazione. Una condizione che li rende poveri in tutti i sensi, soprattutto a livello culturale, incapaci di organizzarsi, di rivendicare i loro diritti. Mancava loro la capacità di “leggere e scrivere”. Nei suoi soggiorni estivi dedicati, quindi, a questa azione che possiamo definire di “volontariato culturale”, Manzi si muove tra l’Ecuador, il Perù, la Bolivia (luoghi che diverranno poi gli ambiente di vita dei personaggi dei suoi romanzi), la Colombia e il Brasile. In questi paesi, nei quali si reca a volte con gruppi di studenti universitari volontari, conosce persone che diverranno riferimenti importanti della sua vita. “Si tratta innanzi tutto di Padre Giulio Pianello (incontrato nella Amazzonia peruviana), con il quale avrà rapporti fino alla morte, salesiano mandato come punizione per avere tentato di alfabetizzare gli indios e per avere denunciato dal pulpito gli abusi delle multinazionali, a convertire una tribù nel cuore della selva, dove Manzi lo incontra per la prima volta”. (Cfr Breggia, 2008-2009, p.1) E poi altri, dal guerrigliero Hernàn a missionari come Padre Juan Pablo e Padre Rodas. Nel romanzo “E venne il sabato” (Edizione Gorée, Iesa -Siena, 2005) questi amici diverranno i protagonisti, insieme all’autore stesso, personificato nella figura dello straniero. Qui viene fuori un’altra caratteristica di Manzi: i suoi romani non sono pura invenzione, sono tratti dalla realtà vera, concreta, con la quale lo stesso si confronta. E così sposa “La Teologia della Liberazione” e partecipa attivamente alla liberazione di prigionieri politici. Lui stesso viene tenuto prigioniero in Bolivia per un mese, dopo essere stato arrestato per avere difeso una ragazza che veniva selvaggiamente picchiata dalla polizia locale. Viene torturato, come ha confermato la moglie stessa, così come era stato torturato Padre Giulio al quale avevano spaccato le mani per aver insegnato a scrivere alle popolazioni indigene…” (Cfr. Breggia, 2008-2009, p.2).
Le vicende latinoamericane di Manzi sono spesso condite di avventure. Accusato di estremismo (siamo negli anni in cui agisce Che Guevara, che una volta ucciso in Bolivia, nell’ottobre del 1967, aleggerà come un fantasma per i regimi militari dittatoriali) è ritenuto da alcuni governi scomodo e quindi “non gradito”. Ma il suo rapporto con le missioni salesiane e l’avere utilizzato l’espediente di passaporti falsi, gli permette di rientrare fino al 1984, ultimo anno della sua vicenda latinoamericana da volontario. È solo forse per caso che non ci si sia incontrati. Nel 1982 sono stato 6 mesi in Perù, sull’altipiano delle Ande, vicino al Lago Titicaca, in mezzo a popolazioni “quechua”. La mia ricerca mirava alla raccolta di materiali, esperienze e documentazione circa le tecnologie popolari, usate dai “campesinos”. Ed è sullo stesso materiale antropologico che Manzi lavora, aiutato dagli scritti di Josè Maria Arguedas e Manuel Scorza. Realtà, da una parte, narrate e conosciute attraverso i libri e, dall’altra, sperimentate e vissute “sul campo”. Da queste esperienze nasceranno i suoi romanzi, centrati spesso su figure emblematiche del “mondo andino” o sudamericano, come ad esempio i lavoratori del caucciù, o i “vagabondi-senza casa”. Un esempio chiaro di ciò è il romanzo “El loco”, che in spagnolo significa pazzo, fuori di testa, scemo. Il romanzo è ambientato nel villaggio andino di San Sebastian, dove “el loco” è fra i pochi a sapere scrivere e leggere che insegnerà poi ad Antonietta. Sarà Antonietta che a San Sebastian darà vita alla rivoluzione contro la compagnia mineraria che vuole comprare le terre della comunità, terre che erano distribuite alle singole famiglie secondo un antico sistema comunitario di rotazione. Un tipico esempio che ci dice come Alberto Manzi conoscesse perfettamente i sistemi sociali in uso nelle comunità andine e che anch’io ho avuto occasione di scoprire e approfondire attraverso la mia tesi di laurea, dal titolo emblematico “Dagli Appennini alle Ande: le tecnologie appropriate come sistemi di trasformazione sociale”.

LA MEMORIA DI ALBERTO MANZI IN AMERICA LATINA – Avere portato in Brasile la mostra “Alberto Manzi – Storia di un maestro” realizzata dal Centro Alberto Manzi del Consiglio Regionale della Emilia Romagna, averlo tradotto in portoghese (4), ci offre oggi l’opportunità di iniziare un lavoro di ricerca. Capire quali sono i segni che Manzi ha tracciato in mezzo ai popoli di questo immenso continente. Fra le realtà a cui Manzi contribuisce con un apporto significativo, c’è l’Argentina. Nel 1987, pochi anni dopo la caduta della dittatura dei generali, è chiamato a tenere un corso di formazione. 60 ore, distribuite in 15 giorni, per formare docenti universitari che sarebbero poi andati ad elaborare il “Piano Nazionale di Alfabetizzazione” sul modello di “Non è mai troppo tardi”. L’Argentina sarà premiata, nel 1989 dall’UNESCO, per il miglior programma di alfabetizzazione adottato in America Latina. Stiamo coinvolgendo in un lavoro di ricerca e di memoria la Società Dante Alighieri di Buenos Aires (una delle più grandi al mondo) per ritrovare testimonianze e documentazioni sull’apporto di Manzi. E così ci auguriamo accada per gli altri paesi in cui il maestro Alberto Manzi ha operato. È solo l’inizio di una ricerca.
Gianfranco Zavalloni
Dirigente Scolastico dell’Ufficio Scuola e Cultura
Consolato d’Italia di Belo Horizonte in Minas Gerais – BRASILE

Riferimenti bibliografici
Braggia M. (Anno Accademico 2008-2009), Alberto Manzi e l’America Latina: esperienze di vita e influssi letterari – Tesi di laurea di per la Facoltà di lettere e filosofia – Università di Siena.
Manzi A. (1956), Orzowey, Firenze, Casa Editrice Vallecchi
Manzi A. (1974), La luna sulle baracche, Firenze, Casa Editrice Salani
Manzi A. (2005), E venne il sabato, Iesa -Siena, Casa Editrice Gorée
Manzi A. (1979), El loco, Firenze, Casa Editrice Salani

Immaginando pensieri su Maria Montessori

In Romagna io, nelle Marche lei… le nostre terre si toccano, confinano, si contaminano, le lega un filo, una lingua di terra e così i miei pensieri e il mio fare, io sento ancora l’eco delle sue parole e a volte la terra sotto i piedi trema se penso alla sua altezza, alla vastità di orizzonte della sua storia.

Il guardare verso il fuori, verso l’altro da me cogliendone l’unicità, la molteplicità degli interessi, una curiosità irrequieta, un desiderio di vita, ricerca e conoscenza, uno sguardo moderno, intelligente, sensibile, umano e buono, sono tratti che ritrovo e vorrei mi appartenessero.

E’ la gratitudine il sentimento che sento di doverle: ogni mia azione è stata permeata dal suo pensiero, l’origine di molte mie domande e anche l’elaborazione e la conclusione a cui sono giunto partivano da una sua riflessione. Tanti i temi che mi avvicinano alla dottoressa, pedagogista, filosofa Maria Montessori, lei davanti a illuminare il cammino e io dietro o affianco ma pur sempre vicino, entrambi con la speranza e la fiducia nell’educazione e con la convinzione in sé rivoluzionaria che il cambiamento sia possibile.

L’infanzia come questione sociale, i diritti dell’infanzia e le limitazioni della libertà, quell’ “aiutami a fare da solo”, il concetto limitante e incompleto di bambino come vaso vuoto da riempire e da colmare che lei ha scardinato, le hanno permesso di mostrarci il bambino come un essere completo e complesso, dotato di una struttura mentale, la mente assorbente, con dinamiche di crescita proprie che scompaiono con l’età adulta come momento magico e irripetibile.

Il” Signor Errore” diviene un amico benevolo del processo di apprendimento, né una colpa né un’immoralità né un sintomo. Gli errori ci avvicinano e ci fanno più amici, perché il processo di fratellanza nasce meglio sul sentiero degli errori che su quello della perfezione; quell’errare, quel far sì che il cervello trasformi in cammino e in percorso nuovo quello fatto e intrapreso da altri, quell’errore che diventa creativo apre a una molteplicità di scoperte e possibilità, ci apre verso il nuovo.

Una scuola la mia, creativa e inclusiva, che partendo da queste consapevolezze offre un sentimento del tempo lento, diluito, pregno, ricco di esperienze dove il fare e rifare permettono al bambino e alla bambina di correggersi da solo/a e di non incorrere nella frustrazione del fallimento e a esercitare l’interesse, la volontà e l’impegno, una didattica che moltiplica lo spettro delle offerte per dare più opportunità, più materiali, più strumenti, tanti quanti sono gli stili di apprendimento dei bambini… una scuola a misura di bambino.

Come diceva la Montessori non si tratta di una scuola per i bambini, ma di una scuola dei bambini che sono co-costruttori del proprio processo di crescita; una scuola dunque che avvicina i suoi alunni e che si allontana dall’idea di competitività, che parla di aiuto reciproco, di responsabilità, di scambio e di cooperazione, che allena al ragionamento collettivo, al confronto, a imparare a discutere, a negoziare se serve, nell’ottica del diritto al dialogo e all’ascolto e della educazione alla cittadinanza e alla pace… un camminare insieme.

In me l’errore diviene un diritto a sbagliare, proprio perché l’errore ha un grande valore educativo. Alleggerisce l’adulto, il maestro, che non è un tuttologo, non toglie dignità, non mette in cattiva luce, ma all’opposto mostra umano, vicino, sereno quasi allegro di fronte all’inciampo, all’imprevisto che diviene quell’inatteso atteso utile a farmi smettere di avere tutto sotto controllo, che aiuta a navigare a vista a essere più morbido sui processi, a uscire dall’ottica rigida del “si è sempre fatto così”. La Montessori diceva che il maestro/a deve “gettare un raggio di luce”, che non deve insegnare a tutti con lo stesso ritmo monotono, ma deve dare a ciascuno il dono di essere compreso e di essere corrisposto nei bisogni profondi dell’anima.

Come lei ho sempre cercato di indagare l’anima del fanciullo, il segreto dell’infanzia, una ricerca, la mia come la sua, durata tutta la vita, un ricordare il nostro essere stati bambini, un cercarlo ovunque anche lontano, lei in India, io in Brasile, una curiosità salvifica la nostra che ha portato entrambi a nutrirci di bellezza e a volerla condividere con gli altri per arrivare come fine ultimo a rispettare tutte le infanzie che abitano il mondo.

L’importanza dell’imparare facendo, di un coinvolgimento attivo, concreto e diretto, della necessità del fare e dello scoprire sensoriale, del tatto in primis, della mano come organo d’intelligenza è uno dei fondamenti del mio credo pedagogico: dove la mente pensa, la mano crea, costruisce, realizza, nella mia scuola “bottega artigiana” quei segni che la mano fa sulla materia e che si depositano poi nel cervello permettono ai bambini di vederli manifestati.

La mano fa gioire il pensiero, muove e fissa il ri-cor-do, ed è proprio quell’ emozione che attiva l’apprendimento rendendolo efficace e duraturo; una scuola la nostra non come obbligo da sopportare ma come scoperta collettiva del mondo al cui centro c’è il bambino e la bambina dove la loro forza e creatività non vengono soffocate ma rivelate come esplosioni o epifanie, si incarnano o come dico io s’incardinano. Diviene dunque fondamentale il ruolo della maestra e del maestro che osserva in maniera puntuale, documenta, fa domande generative e si pone come esempio, predispone il materiale e gli strumenti di questa ferramenta ludica, ma lo fa lasciando ampi spazi di autonomia, d’indipendenza, di libertà.

Così la scuola non può essere che il luogo in cui tutto è connesso, aperto al fuori, alla natura dove l’uno è nel tutto, dove io mi prendo cura, mi attivo perché ne sono parte importante: questo pensiero è diventato per me un’azione, un agire continuo, una vera missione ecco quindi la didattica degli orti, le tecnologie appropriate, la fattoria didattica, il mio impegno politico, i microlibri e la poesia…

Un grazie non basta dunque ma non c’è parola più adatta che nella sua semplicità racchiuda il mio sentire poiché deriva dal greco charis che sta a indicare l’essere contento, lo stare bene.